Reggio Calabria: inaugurata ieri la mostra Di Morgana, dell’amore e di altri delitti

Si è aperta ieri 21 Giugno, giorno del solstizio d’estate, la mostra Di Morgana, dell’amore e di altri delitti promossa dall’associazione culturale IN.SI.DE., patrocinata dal comune di Reggio Calabria assessorato alla valorizzazione dei beni culturali e curata da Elmar Elisabetta Marcianò alla presenza di moltissimi visitatori che hanno ammirato, all’interno dello spazio archeologico Ipogeo di Piazza Italia, le opere dei tre artisti protagonisti della collettiva d’arte. Le opere che hanno suscitato un notevole interesse tra i presenti vanno ad inserirsi all’interno della ricerca artistica contemporanea. Dal disegno alla scultura, passando per la pittura ad olio la collettiva ha proposto opere originali proponendo una evoluzione del mito, del femminino sacro e dell’eterna ricerca dell’essere spirituale. E’ lo stesso Giuseppe Bonaccorso ad indagare quest’ultimo tema grazie ad una serie di disegni che ci introducono alla ricerca junghiana: “Spesso quando ero solo andavo a sedermi su una pietra e cominciava allora un gioco fantastico, pressappoco di questo genere: Io sto seduto sulla cima di questa pietra e la pietra è sotto, ma anche la pietra potrebbe dire “Io” e pensare: Io sono posata su questo pendio ed egli è seduto su di me: Allora sorgeva il problema: sono io quello che è seduto sulla pietra o io sono la pietra sulla quale egli siede? E brancolavo nel buio, buio che però stranamente mi affascinava. Non nutrivo dubbi che la pietra fosse in qualche oscuro rapporto con me, e potevo sederci su per ore, affascinato dal suo enigma”. Scriveva così Carl Gustav Jung di un suo gioco infantile e dell’unità Pietra che in qualche oscuro modo si “confrontava” in un gioco di ruoli con l’unità Uomo. Pietra e uomo, corpo e spirito, surrealismo e simbolismo che tutti si incontrano nell’ultima ricerca di Giuseppe Bonaccorso, artista eclettico e di forte sperimentazione. Le opere esposte raccontano di paesaggi surreali, di grandi battaglie spirituali, di volontà estreme che vincono la forza di gravità. Ed ecco che le pietre diventano pendoli dondolanti, materia leggera, lasciano la superficie terrestre per raggiungere il cielo. Divengono all’interno di un paradosso, rappresentazioni spirituali dell’essere. Arche di salvezza, sagome essenziali di alberi, pietre così realistiche da sembrare materia; pietre che sbucano come luce dal buio della coscienza, sospese, brillanti. Le linee sofisticate dei disegni di Bonaccorso non possono ingannare, “il disegno è la sincerità nell’arte” (Paul Klee), la massima espressione del talento innato. E nei suoi lavori il nostro autore è solo contro se stesso e la sua immaginazione. Una grafite, un foglio di carta e il suo pensiero che disegna “contenuti”, che ragiona, che “pensa” al di là dell’emozione. Disegni della ratio in cui il bianco, il nero e tutte le infinite possibilità del grigio cercano la verità; un mondo in cui il principio, la fine e tutte le infinite possibilità di vita che stanno in mezzo cercano la via. Sono io la pietra immobile o è lei il mio essere mobile? Continuando il nostro percorso all’interno della mostra ecco che incontriamo le opere di Giuseppe della Volpe, un segno espressivo, carico di tensione e irrequietezza, sembra essere la firma dell’artista un segno che ci porta all’interno di un mondo in cui la figura mitologica viene reinterpretata tornando ad essere attuale. Morgana, Medusa e Dafne sono, nella concezione di della Volpe, prima di tutto donne e quindi attente al cambiamento, alle novità estetiche. La predilezione dell’artista per il giallo di Napoli trasforma tutto in luce carica, intensa, materica. La pelle volutamente gialla, le fessure, gli occhi ipnotici, le grandi dimensioni servono a catapultare l’osservatore in un altro mondo non del tutto estraneo alla realtà. Un mondo in cui Medusa trova il tempo di curare le unghie e Morgana taglia i capelli seguendo la moda. Un mondo in cui tutto si mescola, sogno e realtà, interpretazione e verità, amore e delitto perché “l’amore non è quello che quei poeti del cazzo vogliono farvi credere, L’amore ha i denti, i denti mordono, i morsi non guariscono mai” (S. King). E le donne/mito che sceglie di rappresentare attraverso una composizione drammatica conoscono bene il significato di queste parole. Una lettura originale, quella di della Volpe che offre opere intense, drammatiche, ma nel contempo poetiche e moderne. Un’indagine resa pulsante di vita dal gioco vibrante dei un colore forte, invadente, presuntuoso. Opere con una forte componente emotiva, di struggente, “horribilis” bellezza. A chiudere questo trittico è la ricerca di Antonio Tony Giuffrè abbraccia tutta la complessità dell’essere uomo, delle grandi lacerazioni e delle domande giuste. Il primo assunto da cui partire per riflettere sulla sua opera è che l’arte, pur rimanendo in una sua specifica dimensione, coincide di fatto con la vita dell’artista e il suo “essere” nel proprio tempo. In Giuffrè l’opera che sia dipinto o scultura è la “soglia” che si offre al visitatore, che apre su un mondo mai dichiarato nella sua totalità, che mantiene quella riserva di significati secondo il rapporto istituito da Heidegger tra “mondo” (ciò che l’opera fonda) e “terra” (la riserva di significati mai esplicita). La volontà dell’artista è quella di tornare alla purezza ancestrale intesa come categoria dell’essere, di recuperare l’immagine primigenia, l’impronta lasciata dal “primo essere”. La figurazione è spesso drammatica, pur rimanendo sempre all’interno di una vigorosa ricerca compositiva da cui emerge una sembianza umana destabilizzante, disturbante posta al centro di una raffinatissima pittura. Il riferimento alla figura umana, che corre per quasi tutte le opere è originata dall’esigenza di porre l’attenzione su una miriade di accadimenti che accadono sulla tela, che catturano e impongono l’attenzione dello sguardo, il correre ed il ripercorrere degli occhi di chi sa vedere sui dipinti affinché lentamente tutto possa essere compreso. La sua risulta una pittura piena, fatta di luci ed ombre quasi uno spazio claustrofobico che solo dopo un’attenta e peculiare osservazione, una lunga sosta e una serie di estenuanti colloqui con l’uomo, con la solitudine dell’essere può svelarsi. Sulle tele di Giuffrè sanno “correre e dialogare” pittura e parole, un innesto dal quale prende vita la dimensione più profonda e misteriosa della conoscenza. La mostra resterà aperta al pubblica fino al prossimo 7 luglio.

Elmar Elisabetta Marcianò

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