Marchi contraffatti e “Posta-sale confusion”

18\08\2012 – In tema di merce contraffatta, la Corte di Cassazione si è pronunciata di recente, decidendo su un ricorso proposto da una negoziante, la quale commercializzava profumi non originali, accostando ad essi una cartellonistica indicante “falso d’autore”; in tal modo, la commerciante riteneva di non indurre in errore il possibile acquirente e , quindi, di tutelarsi ai fini legali. Con la Sentenza n. 28423712, però, la Cassazione, ha statuito che il marchio non tutela l’affidamento del singolo individuo/acquirente, ma la “pubblica fede” intesa in senso oggettivo, ossia “l’affidamento dei cittadini nei marchi o segni distintivi che individuano le opere dell’ingegno o i prodotti industriali”; e, sulla base di tale interpretazione, ha ritenuto responsabile la commerciante del reato p. e p. dall’art. 474 del Codice Penale, rubricato “Introduzione nello Stato e commercio di prodotti con segni falsi”, poiché, secondo gli Ermellini, non è necessario che la clientela venga, in concreto, ingannata sulla genuità del prodotto, essendo sufficiente che il marchio del prodotto sia, di per sé, idoneo a generare nell’acquirente confusione tra il prodotto originale e quello non autentico, o, più specificamente, tra il marchio registrato e la sua riproduzione. Dunque, ai fini dell’integrazione del reato, è sufficiente che il marchio registrato altrui sia stato riprodotto. Tale pronuncia avalla l’orientamento, oramai costante, della Suprema Corte espresso sul punto: difatti, già a partire dal 2001, fino alla più recente Sentenza n. 15080/12, la Cassazione ha ritenuto che il reato ex art. 474 C.p. si configura anche se il venditore ha messo a conoscenza l’acquirente della “non autenticità” del marchio del prodotto.

Invero, l’art. 474 del Codice Penale è un reato cd. “di pericolo”, per cui, ai fini dell’integrazione della fattispecie criminosa, è sufficiente che venga accertata l’avvenuta contraffazione del marchio, a prescindere dall’effettivo inganno generato nei terzi. Da quanto sopra, si evince, dunque, che la giurisprudenza penalistica oramai abbraccia un orientamento costante e consolidato, orientamento che ravvisa la “illiceità” nella produzione o commercializzazione di prodotti con marchi falsificati, anche nei casi in cui tale falsificazione è evidente o, addirittura, dichiarata dallo stesso venditore.

Invero, anche in ambito comunitario è, oramai, divenuta granitica tale interpretazione: la Corte di Giustizia CE, infatti, ritiene che il rischio di confusione tra marchi non riguarda solamente l’acquirente del prodotto “falso”, il quale potrebbe anche essere consapevole della sua “non originalità”, ma si estende anche coloro che si possono imbattere nel prodotto “falso” successivamente alla sua vendita: nello specifico, i Giudici CE parlano di “post-sale confusion”, ossia di confusione successiva alla vendita, fattispecie, questa, che è stata opportunamente sanzionata anche dai Giudici italiani, i quali hanno motivato le sentenze di condanna, ritenendo che i prodotti non originali “avrebbero potuto, dopo la vendita, essere confusi con quelli autentici”(in particolare, Cassazione Penale n. 34846/08).

Avv. Antonella Rigolino

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