Due chiacchiere con Domenico Ficara, autore di “Wonderful”

Di cosa parla il romanzo?

Il libro racconta vent’anni di storia di un ristorante “quick food”, dei suoi proprietari, dei suoi dirigenti e dei semplici lavoratori.

Sbaglio o hai detto “quick” invece di “fast”.

Non sbagli. Ho detto “quick” perché la storia è ambientata nel Cheatland, un paese immaginario con la sua lingua e le sue abitudini. Cheat, in inglese, vuol dire imbroglio, raggiro. Quindi, il Cheatland è il paese delle fregature. Di chi predica bene e razzola male. Non mi sorprenderei se i lettori lo trovassero simile all’Italia.

Perché reputi il libro interessante?

Lo reputo interessante sia dal punto di vista dei contenuti che dello stile. Partiamo dai contenuti: attraverso la descrizione di questo microcosmo ho voluto rappresentare la follia e l’immoralità di un mondo del lavoro sempre più caratterizzato da una profonda mancanza di rispetto nei confronti dei lavoratori e degli esseri umani in generale. Una volta le aziende curavano i rapporti col loro personale. Il senso di appartenenza era molto spiccato, così come era forte e autorevole la cultura operaia e l’identificazione del singolo con la propria categoria. Certo, c’era anche una grande tensione sociale. Motivi per lamentarsi se ne trovavano in abbondanza. Il fatto è che questo problema è non è stato risolto concedendo ai lavoratori quello che volevano, ma togliendo loro il poco che avevano. Dividendoli, disgregandoli, privandoli di principi come l’unità e la solidarietà. Oggi, ognuno pensa per sé e i colleghi sono diventati degli estranei, se non dei veri e propri avversari. Questo si vede bene nei call center, ma vale lo stesso principio negli uffici, nelle fabbriche e nel settore dei trasporti, tanto per fare degli esempi. Quasi tutte le categorie di lavoratori potrenno identificarsi in Wonderful! E questo non li porterà a conclusioni tanto allegre. Anche se poi il libro è fatto per ridere.

Parlaci dello stile.

Ci stavo arrivando. Un giorno mi piacerebbe sentir dire che questo libro si inserisce nel solco di una tradizione rappresentata da opere come: Boris; Tutta la vita davanti; Volevo solo dormirle addosso. Tutte commedie ambientate, a vario titolo, nel mondo del lavoro. Fatte per ridere, certo, ma dai risvolti amari, a volte tragici. Volevo trasmettere una sensazione di grande caos e precarietà, per farlo ho scelto di raccontare questi vent’anni tutti d’un fiato, senza capitoli, né paragrafi, né interruzioni di sorta. Tutto scorre senza tregua, i guai inseguono i tradimenti e le carognate si sommano all’incapacità. Il lettore non ha tempo per prendere fiato, così come i personaggi non hanno modo di sfuggire al loro destino. Volevo che il libro somigliasse al film: Café express, in cui il personaggio di Nino Manfredi è inseguito, minacciato, perseguitato. Quando lo spettatore lo vede scendere dal treno a Roma, pensa che quello sarà il suo ultimo viaggio e mai più si azzarderà a vendere cappuccini sui treni. Invece, lui si dà una sciacquata veloce e si dice pronto a ricominciare. Ecco, un turno di quattro ore in un grande fast food somiglia maledettamente a quel film e questo è l’effetto che ho voluto ricreare.

Parlaci un po’ di te. Quando ha cominciato a scrivere?

Scrivo da sempre, ma solo dopo l’incontro con un signore che si chiama Giorgio Dell’Arti ho cominciato a realizzare opere godibili. Lui mi ha insegnato i segreti della scrittura (che segreti non sono). Voglio approfittarne per ringraziarlo ancora una volta.

Stai scrivendo qualche altro libro?

Sì. Ho finito da poco un romanzo che parla del problema dell’amianto e dell’eternit, ancora troppo diffusi nei nostri territori. S’intitola L’ordine naturale delle cose. L’ho affidato a un’agenzia di Roma che si è dichiarata entusista del mio lavoro. Spero mi diano buone notizie al più presto.

Bene. In bocca al lupo allora.

Crepi il lupo. Grazie e arrivederci a tutti.

Donatella Pristipino

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