Violenza e femminicidio … a che punto siamo?!

Nel 1992 la criminologa Diana Russell introduce per la prima volta il termine in una sua pubblicazione per identificare una categoria criminologica misogina. Nel 1993 l’antropologa Marcela Lagarde ne fa uso per descrivere una forma estrema di violenza contro le donne in quanto tali, estendendone il concetto ad una forma di discriminazione. Ma è tra il 1993 e il 2006 che il termine femminicidio fa la sua comparsa nella cronaca e la triste entrata nel linguaggio comune quando, a Ciudad Juárez, una cittadina del Messico al confine con gli Stati Uniti, vengono uccise 430 donne ed oltre 600 scompaiono nel nulla. In questa terra lontana, dove malavita e stato per anni sono stati complici di un terribile massacro contro le donne, nasce un movimento di denuncia “Nuestras Hijas de regreso a casa”, cofondato da Marisela Escobedo Ruiz, uccisa nel 2010 mentre protestata per ottenere giustizia per la morte della figlia. Questo movimento segnerà il primo passo verso il riconoscimento e la denuncia dei numerosi crimini che da sempre vengono perpetrati ai danni delle donne di tutto il mondo.  E in Italia? Il sistema legislativo vigente in Italia è, per molti tratti, logoro e desueto, i tempi cambiano e così anche le realtà che devono essere legiferate. Nel passato di ogni civiltà moderna la donna era considerata giuridicamente “incapace” e l’Italia non è da meno. Basti pensare che nel 1865 l’art. 34 del codice civile Del Regno d’Italia recitava: “”La moglie non può donare, alienare beni immobili, sottoporli ad ipoteca, contrarre mutui, cedere o riscuotere capitali, costituirsi sicurtà, né transigere o stare in giudizio relativamente a tali atti, senza l’autorizzazione del marito”. Nel 1946 le donne conquistano il diritto di voto e due anni dopo l’articolo 3 del codice civile della prima Costituzione della Repubblica Italiana veniva enunciato, “”Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”. Questi i primi importanti passi lungo una strada tortuosa non totalmente sgombra da insidie.

Sino al 1963 lo “ius corrigendi” consentiva al marito di battere la moglie, per “correggerla” qualora – a suo personalissimo giudizio – ritenesse che avesse commesso errori. Sino al 1969 l’adulterio di una donna era considerato reato, a differenza di quello dell’uomo che era tollerato a patto che non causasse un eccessivo scandalo pubblico. Sino al 1981 il delitto d’onore era previsto dal nostro ordinamento e consentiva ad un uomo che uccideva la moglie, la figlia, la sorella, “nello stato d’ira determinato dall’offesa recata all’onore suo e della sua famiglia” il diritto a tutte le attenuanti con il riconoscimento di una pena che andava dai tre ai sette anni. Ma, la donna che avesse compiuto lo stesso reato, andava incontro all’ergastolo. E’ negli anni novanta che si compiono i primi passi. A partire dal 1996 il reato sessuale, sino ad allora riconosciuto come reato contro la morale, viene riconosciuto come reato contro la persona. Dal 1999 viene riconosciuto il reato di stalking. Altre leggi sono poi nate, finalmente, a tutela della donna e dei suoi diritti. Ma c’è ancora molto da fare, sia a livello legislativo che a livello di mentalità di buona parte della società. Il femminicidio è un reato che deve e può essere evitato. Ai primi segnali di violenza psicologica e/o fisica è necessario agire. Chi è chiamato ad aiutare le donne vittime di violenze deve necessariamente disporre degli strumenti necessari perchè quanto accade venga identificato come reato, ma anche chi assiste a tutto ciò deve avere la chiarezza di pensiero di riconoscere quanto accade. Le varie associazioni, che nel corso degli anni sono nate, stanno facendo molto sia a livello di informazione che a livello di sostegno concreto per tutte quelle donne che stanno subendo una qualsiasi forma di violenza. Ma non possono rimanere le sole. La maggior parte delle violenze nei confronti delle donne nasce in ambienti domestici. Il marito, l’ex fidanzato, l’amico.. per una sorta di possesso verso la compagna che non viene riconosciuta come essere umano con una propria identità, ma come “oggetto” di proprietà privata che deve sottostare a determinate regole. Spesso purtroppo un disequilibrio all’interno del rapporto viene interpretato da chi osserva come un semplice litigio perchè la violenza domestica, malgrado i ripetuti fatti di cronaca, non viene ancora riconosciuta come una realtà che può manifestarsi tra le mura di chiunque. Lascia sconcertati, poi, sentire taluni affermare che una donna deve prestare attenzione al proprio abbigliamento per non istigare coloro che la guardano. E’ buona cosa non scordare mai che la malattia, perchè di malattia a mio avviso si tratta, risiede negli occhi di chi osserva e non nel corpo sul quale cade lo sguardo, comunque esso sia presentato. Un corpo, un abbigliamento, un atteggiamento, possono risultare volgari o inappropriati, questo è buon gusto che arbitrariamente può essere oggettivo o soggettivo. Ma una violenza, sotto qualsiasi forma essa si presenta, è e rimane una violenza ingiustificabile, gratuita e malata. Diderot disse “Quando si scrive di una donna bisogna intingere la penna nell’arcobaleno e cospargere il foglio con polvere d’ali di farfalla.”

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About the Author: Annalisa Brivio