La Grande Bellezza

Il mio giudizio per La Grande Bellezza, di Paolo Sorrentino, arriva in ritardo rispetto alle recensioni dei colleghi che – in un dimenarsi di articoli, quasi in lotta contro il tempo dopo la vittoria agli Oscar – hanno preso parte alla più discussa risposta, da parte dello spettatore, al film. Dopo averlo visto, mi è chiara l’idea per cui il pubblico è letteralmente spaccato a metà tra apprezzamenti e critiche agguerrite, un po’ come Guelfi e Ghibellini, all’interno della visione Sorrentiniana di una Roma mondana, classica, decadente, vuota e piena, allo stesso tempo: una divisione tra esperti del settore e cinefili improvvisati.

 La “Grande Pesantezza”. Definita così da coloro i quali hanno lasciato a casa ogni criterio oggettivo e tecnico di questo prodotto cinematografico, che va di là dalla tradizione filmica italiana cui il pubblico è tanto affezionato. Ciò accade perché lo spettatore italiano (in generale) non è educato a nuovi punti di vista, soprattutto se si tratta di nuove traiettorie interpretative. Già, perché Sorrentino rompe le barriere del cinema italiano e incamera ogni linguaggio internazionale che si discosta da quello usuale che in Italia, invece, siamo avvezzi.

Impiega persone, luoghi e strumenti nuovi al modo di raccontare storie “all’italiana”, confezionando una visione lirica (montaggio – fotografia – colonna sonora) del cammino in cui il protagonista, Jep Gambardella, è solito perdersi, alle prime luci del mattino. Un accostamento quasi obbligatorio alla felliniana rappresentazione del mondo. Da una parte la similitudine tra le riprese della Capitale, ma anche i personaggi ecclesiali, come le suore, i cardinali, e questa religiosità che ritroviamo come leitmotiv, a volte importuno, della colonna sonora.

Altresì, l’onirico felliniano ma anche la presenza di una linea narrativa distorta e incerta, faticosa da inseguire, sembrano riprendere le opere di Antonioni. Jep Gambardella è alla ricerca della grande bellezza, quella bellezza che lo ha portato alla realizzazione personale, al più alto livello di riconoscimento letterario e culturale dei nostri tempi, ma che adesso lo ha abbandonato nella vuotezza della vita mondana, sterile e anti-emozionale di cui Jep è vittima e carnefice; ove non c’è posto per il passato seppure, attraverso dei flashback, il ricordo di Gambardella si insinua, come un traditore che lo ferisce alle spalle, citando Kierkegaard.

La “Grande Bellezza”. Titolo, omonimo, dei bravi recensori che hanno raccolto gli indizi visionari del regista, rendendo omaggio alla densità dei dialoghi e la profondità di ogni singolo personaggio rappresentato. La discrepanza tra un lavoro di sceneggiatura ricercato e ricco di citazioni, di ciniche analisi della società contemporanea e una rappresentazione grottesca della mondanità in cui questa è subordinata.

 V’è una ricerca di luoghi, emozioni, intimità, problematiche, ma anche una filosofia – ricordando Walter Benjamin– che percorre l’opera di Sorrentino, dove tutto è frammentario ma tenuto insieme dalla grammatica del cinema, dalla prima inquadratura fino al primo piano più vigoroso di un sublime Toni Servillo.

Operando in maniera inversa, si potrebbe – addirittura – decostruire il film di Sorrentino sezionandolo in diversi episodi, correlati dalla figura di Jep, ma ben distinti da una sotto trama indipendente, comunque affascinate. Difficile schierarsi su due fronti, a mio avviso. La Grande Bellezza lascia il segno, c’è poco da fare.

Che esso sia una cicatrice profonda nell’animo di colui che vi riconosce la sofferenza di un Paese e di una società dai valori labili, o che sia solo un leggero graffio per chi non riesce a instaurare la relazione consueta “spettatore–narrazione”, non si può negare di aver partecipato ad un viaggio inaspettato tra luoghi e volti familiari per una Roma più onirica che mai.

Ilenia Borgia

Critica cinematografica e Dott.ssa in linguaggi dello spettacolo, cinema e video

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