La realzione del senatore D’Ascola per il DDl Anticorruzione

d ascolaIl relatore, sen. D’Ascola ha illustrato il testo proposto dalla Commissione. La prima parte del provvedimento, che riguarda i reati contro la pubblica amministrazione, inasprisce le pene principali e accessorie per i reati di corruzione, indebita induzione e peculato. Sono previsti obblighi di riparazione e attenuanti in caso di collaborazione utile alle indagini. In un’ottica di prevenzione, è previsto lo scambio di informazione tra autorità anticorruzione, procure e tribunali amministrativi regionali. La seconda parte del provvedimento riguarda i delitti di falsa comunicazione sociale. E’ prevista un’area di non punibilità per fatti di lieve entità riguardanti società non quotate. L’attuale disegno di legge si compone sostanzialmente di due parti. La prima parte riguarda i reati contro la Pubblica amministrazione e tutta una serie di disposizioni connesse al trattamento punitivo in materia di delitti dei pubblici ufficiali contro lo Pubblica amministrazione. La seconda parte è incentrata sui delitti di false comunicazioni sociali. Per quanto riguarda la prima categoria di delitti, si prevede un inasprimento sanzionatorio generalizzato, che riguarda cioè non soltanto le pene principali ma anche quelle accessorie. In particolare, si interviene sul delitto di corruzione per l’esercizio delle funzioni di corruzione per atto contrario ai doveri dell’ufficio, di corruzione in atti giudiziari, di indebita induzione e di peculato. Da questo punto di vista si è allargato l’inasprimento del trattamento sanzionatorio in virtù della necessità di armonizzare e riequilibrare detto trattamento all’interno delle figure che compongono i delitti dei pubblici ufficiali contro la Pubblica amministrazione in quanto l’inasprimento sanzionatorio, prevalentemente incentrato sull’articolo 319 del codice penale (corruzione per atto contrario ai doveri di un pubblico ufficiale) ha determinato la necessità di un più generale coordinamento sanzionatorio volto, per l’appunto, ad armonizzare l’inasprimento sanzionatorio tra le figure che compongono l’intera categoria. Tanto per dare facile esemplificazione al problema, una volta inasprito il trattamento sanzionatorio sul versante dell’articolo 319, è sembrato necessario prevedere una pena ancora più aspra per il più grave – per me lo meno per come ritenuto dalla Commissione – delitto di corruzione in atti giudiziari. Si è detto che l’inasprimento sanzionatorio non si giustifica in relazione all’obiettivo di una prevenzione generale ossia all’obiettivo che si individua nel presunto decremento di fatti concernenti i delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione in corrispondenza dell’incremento sanzionatorio. Sul punto deve essere chiaro che se pure non si trova una regola scientifica volta ad individuare una chiara relazione tra l’incremento sanzionatorio e la dissuasione nel commettere delitti di questo genere, è però indubbiamente vero che la giustificazione di questo trattamento sanzionatorio più aspro si individua sul versante, potremmo dire classico, della retribuzione. Infatti, più cresce nella società la disapprovazione per tali delitti, più si registra la natura plurioffensiva di tali fatti di reato. È notorio come i delitti contro la pubblica amministrazione abbiano degli effetti lesivi nei confronti, per esempio, dell’economia nazionale, dell’immagine internazionale dell’Italia, dalla quale ovviamente discendono anche conseguenze in campo economico. Più si registra tale natura offensiva, più si giustifica un incremento sanzionatorio con riferimento agli aspetti classici di un sistema penale che si regge sul principio retributivo, ossia al crescere del danno si giustifica un accrescimento dell’intervento sanzionatorio. Devo poi dire che non ci sono soltanto misure di natura repressiva, ma anche volte a incentivare il versante preventivo. Si inseriscono in questo filone legislativo gli obblighi di informazione funzionali a determinare un coordinamento tra l’Autorità internazionale anticorruzione, la procura della Repubblica e i tribunali amministrativi regionali, i quali ovviamente hanno il polso di situazioni disfunzionali che possono e debbono, per la convinzione della Commissione, essere riferite a quell’Autorità, che poi ha il compito di coordinare l’intervento preventivo in materia di anticorruzione. Con la giustificata finalità di conoscere una maggior quota di fatti concernenti i reati contro la pubblica amministrazione, si prevede l’attenuante della collaborazione nel contesto di una disposizione che utilmente grava l’accento sull’avverbio “efficacemente”, volto a sottolineare che l’attenuante è riconosciuta soltanto a soggetti che abbiano reso una collaborazione che abbia dato un risultato utile per le indagini.

Sul piano patrimoniale, l’articolo 322-ter prevede la sanzione patrimoniale con una pluralità di funzioni, delle quali in maniera più dettagliata si potrà riferire in occasione delle fasi del dibattito e della votazione in Aula. Si prevede, ad esempio, la riparazione del danno che corrisponde a una entità pari a quanto indebitamente ricevuto, ma da pagarsi a vantaggio dell’amministrazione di appartenenza; in tale disposizione si intravede non soltanto una sanzione per la infedeltà del pubblico ufficiale e per il danno cagionato all’amministrazione di appartenenza, ma soprattutto una sorta di funzione ulteriormente dissuasiva. Si sottolinea cioè il fatto che, qualsivoglia possa essere l’abilità adoperata nell’occultare il provento e il profitto di tali reati, comunque quel vantaggio ingiusto sarà sanzionato da un obbligo di riparazione che corrisponde esattamente alla somma indebitamente ricevuta. Gli incrementi sanzionatori nell’ambito del disegno di legge, per effetto di emendamenti da attribuirsi al Governo, non riguardano soltanto il versante che potremmo definire originario del disegno di legge n. 19, ossia i delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, ma si prevedono anche norme, come l’articolo 416-bis (associazione di stampo mafioso), rispetto alle quali si è inteso intervenire con sanzioni – e qui l’avverbio ha un significato – ulteriormente aggravatrici di un trattamento sanzionatorio già cospicuo. Qui, tuttavia, l’argomento giustificativo, nel senso ovviamente di spiegare il perché di questa decisione approvata dalla Commissione, sta nell’ulteriormente crescente gravità del fenomeno associativo per come per l’appunto controllato da recenti e – potremmo dire – incessanti fatti di cronaca.

Vi è poi il versante delle false comunicazioni sociali. Sul punto c’è una chiara connessione tra i delitti contro la pubblica amministrazione e i delitti di false comunicazioni sociali, soprattutto allorquando essi si connettono alla possibilità di creare quel nero poi funzionale al pagamento delle tangenti. La disciplina si rende comunque necessaria, quanto alla sua modificazione, per tutta una serie di obiezioni che sono già state fatte proprie dalla Corte costituzionale con quella nota sentenza dell’anno 2004, con la quale è vero che è stata salvata la costituzionalità delle ipotesi di cui agli articoli 2621 e 2622 per come riformulate dalla riforma del 2002, ma è anche vero che con quella sentenza furono evidenziati tutti quegli aspetti che hanno fatto di queste due norme penali incriminatrici delle fattispecie che potremmo definire blindate, usando questo participio passato per evidenziare la rarefazione quanto al campo di applicazione di norme costruite funzionalmente ad un’applicazione rarissima, tanto ricche erano quelle disposizioni di componenti volte, per l’appunto, a rendere scarsamente applicative quelle due disposizioni.

Insomma, quali sono state le scelte di fondo del disegno di legge per un verso, della Commissione, nella fase lunga della elaborazione di un testo evidentemente complesso e difficile, e soprattutto le scelte del Governo? C’è da dire infatti, che se è vera l’accusa di blindatura (potrei ripetere questo termine) rivolta alle due disposizioni nate con la riforma dell’anno 2002, è anche vero d’altra parte che sul piano degli interessi contrapposti, soprattutto in un momento di gravi difficoltà economiche e finanziarie per il Paese, si poneva la necessità di una tutela delle società e quindi della ripresa economica, volte, per l’appunto, a determinare una riduzione del rischio di interventi penalistici in settori che, salvi casi comprovati di falsificazioni, dovevano ritenersi protetti. Si trattava quindi di un gioco delicato di equilibri, nella necessità di rispettare sul punto il relatore, che è anche autore di un testo sul delitto di cui all’articolo 2621 e su quello complementare di cui all’articolo 2622, che ha insistito reiteratamente nel corso dei lavori in Commissione sul fatto che i delitti di falso hanno una struttura unitaria e il falso in bilancio non è altro che una ipotesi particolare di manifestazione dei reati di falso.

Insomma, noi dovevamo concepire, pur rispettosi di queste esigenze, la ricostruzione di una speciale, particolare ipotesi di falso che fosse però, ciò nonostante, concepita in un contesto unitario, razionale e coordinato rispetto alla sua disciplina generale.

La Commissione crede di poter presentare all’attenzione e all’autorità dell’Assemblea un testo che si fa carico di questi problemi e che ovviamente è costruito nelle forme dei reati cosiddetti propri, ossia dei reati che sono previsti nel senso di ipotizzare l’autorità tipica soggettiva in capo a determinati soggetti particolarmente qualificati. Questo è nella storia dei delitti di falso in bilancio, questo è quello che è avvenuto dinanzi alla Commissione ed è chiaro che, a prescindere dalla previsione di un autore proprio, tipico, la norma di cui all’articolo 110 del codice penale, che disciplina il concorso di più persone nel reato, rende applicabile queste norme a chiunque sia stato, ciò nonostante, concorrente nel fatto proprio e tipico del soggetto espressamente evocato dalla disposizione legislativa.

Per dire qualcosa di molto sintetico sulla struttura della norma, riferendomi all’articolo 2621, ma le stesse cose si potrebbero dire con riferimento all’articolo 2622, si caratterizza per una componente di dolo specifico, caratteristica di reati che, a prescindere da una struttura di pericolo, sono comunque eventualmente funzionali ad offendere interessi patrimoniali.Tanto che c’è un dolo specifico: «al fine di conseguire per sé o per altri un giusto profitto». Esso si caratterizza col fatto che le informazioni e le comunicazioni sociali non possono essere qualsivoglia informazioni, ma soltanto quelle tipicamente previste dalla legge. Questo nel rispetto di quel principio di tassatività e di determinatezza che contrassegna il volto costituzionale dell’illecito penale.

La norma è poi costruita nella doppia forma dell’azione o dell’omissione perfettamente equivalente: «espongono ovvero omettono». E cosa devono esporre ovvero omettere di esporre? Dice la legge: «fatti materiali rilevanti». Questa espressione del legislatore potrebbe sembrare enfatica e caratterizzata, sostanzialmente, da superfetazioni. Si potrebbe dire che il fatto è inevitabilmente materiale, e forse questa obiezione potrebbe meritare una contro obiezione.Ma si dice: «rilevanti», e il relatore si permette di dare una sua interpretazione funzionale, essendo il termine “rilevanti” volto a garantire il profilo di offensività. Sappiamo che l’offesa si costruisce in relazione al danno, come anche al pericolo. Quindi, un fatto materiale è rilevante allorquando non è un fatto inidoneo ad offendere l’interesse giuridicamente protetto, ancorché formalmente corrispondente al tipo. In ciò permettendosi il relatore di evocare una questione storica, tradizionale, che fa parte della esperienza di ogni penalista: il problema, trattato reiteratamente anche dalla Corte costituzionale, della necessaria offensività delle condotte di rilevanza penalistica, da determinarsi anche in presenza di una loro apparente corrispondenza al tipo. Quindi, il legislatore, attraverso questa formula vuole sottolineare che i fatti inoffensivi, le valutazioni, i fatti che non sono in grado neanche di innescare la categoria del pericolo, sono fatti che si pongono al di fuori dell’ambito della punibilità. La Commissione (ma anche il Governo, prima della Commissione) ha pensato ad una circostanza attenuante: il fatto di lieve entità punito con una pena che va da uno a tre anni di reclusione, al contrario della ipotesi tipica, punita con una pena che va da uno a cinque anni di reclusione.

Questa scelta legislativa non è una scelta casuale. Essa gioca un ruolo specifico (potremmo definirlo insostituibile), perché lega il delitto di cui all’articolo 2621 al problema della tenuità del fatto e, quindi, a quella causa di non punibilità. Io qui uso un termine atecnico, generalizzante, sotto il quale, storicamente, si pongono tutta una serie di fenomeni caratterizzati dalla non punibilità, ma nettamente diversificati l’uno dall’altro.La causa di non punibilità è prevista, per come noi sappiamo (e anche questa sarà una questione che verrà trattata in Aula), ed è stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica proprio ieri. La ammissibilità di tale causa di non punibilità è prevista, sostanzialmente, solo per i delitti puniti con una pena compresa fino ai cinque anni di reclusione.Pertanto, la previsione sanzionatoria e l’effetto diretto di quell’articolo 2621-ter – del quale il relatore non ha ancora detto, ma del quale parlerà immediatamente – prevede, in una maniera che potremmo dire “speciale” (e uso quest’aggettivo per sottolineare la connessione della causa di non punibilità della tenuità del fatto con la specifica materia delle false comunicazioni sociali), tutte le volte in cui questo fatto di false comunicazioni sociali sia caratterizzato dalle componenti storiche della tenuità del fatto, una valutazione che guardi però in maniera prevalente al danno che sia stato arrecato. Abbiamo quindi una disciplina complessa: l’articolo 2621, nella sua dimensione che potremmo dire generalista; la circostanza attenuante della lieve entità, per com’è prevista nell’articolo 2621-bis; la previsione ulteriore che sono di lieve entità tutti quei fatti che ricadano nell’ambito delle società di cui al comma 2 dell’articolo 1 del regio decreto n. 267 del 1942, la cosiddetta legge fallimentare, tutte le volte in cui quindi quelle società ricadano entro i limiti quantitativi di cui alle lettere a), b) e c) del comma 2 dell’articolo 1 del regio decreto in questione; e poi, questa speciale ipotesi di tenuità del fatto, tutte le volte in cui per l’appunto, trattandosi dell’articolo 2621 – quindi di società non ammesse ad un mercato regolamentato: questa è la discriminazione e la linea di separazione tra gli articoli 2621 e 2622 – questo fatto appaia particolarmente tenue, con quella speciale previsione di tenuità che impone al giudice una particolare e più attenta valutazione, con riferimento alle componenti del danno che già caratterizzano per l’appunto quella speciale tenuità di cui all’articolo 131-bis del nostro codice penale. Lo ribadisco: quest’ultima è una norma non ancora entrata in vigore, ma vigente nel nostro ordinamento giuridico, perché pubblicata nella Gazzetta Ufficiale di ieri.Con riferimento all’articolo 2622, perché, allorquando mi sono permesso di illustrare la struttura del fatto di reato di cui all’articolo 2621, ho detto che essa è sostanzialmente sovrapponibile a quella di cui all’articolo 2622. Pertanto, se illustrassi questa seconda struttura del fatto, altro non farei che ripetere quanto ho già avuto modo di dire con riferimento alla figura del 2621. Ho detto però, che l’elemento differenziale è quello storico: insomma, fintanto che si tratta di società non quotate, con titoli non diffusi e non ammesse ad un mercato regolamentato italiano o dell’Unione europea, ovvero alle situazioni ritenute equivalenti dal secondo comma dell’articolo 2622, si tratta di fatti che possono essere sussunti nello schema dell’articolo 2621.

Quando invece questi fatti riguardano le ben più gravi vicende che si connettono alle società le quali operano all’interno di mercati regolamentati, ovvero che si trovano in quelle quattro situazioni ritenute equivalenti da quella che noi riteniamo sarà la futura legge penale, quindi dal capoverso dell’articolo 2622, allora non v’è dubbio che il fatto sia di maggiore gravità. Infatti, non soltanto la pena come indice maggiore del disvalore è superiore, perché qui arriviamo ad un massimo edittale di otto anni, ma le ipotesi previste dagli articoli 2621-bis e 2622-ter – sulle quali, convinto di averne lungamente riferito, non intendo attardarmi ulteriormente – non sono nemmeno applicabili per l’appunto al delitto di cui all’articolo 2622.L’articolo 2621 si caratterizza, come abbiamo visto, per un’area di non punibilità, che sta nel 2621ter, e per un’attenuante che rende il reato di molto limitata gravità e che riguarda i fatti di lieve entità, come ad esempio i fatti che avvengano nel contesto di società che non sono sottoponibili né al concordato preventivo, né al fallimento. Insomma, a noi è sembrato razionale che, se queste società non possono essere assoggettate a procedure concorsuali, ovviamente meritassero un trattamento di favore anche sul complementare e correlativo versante del trattamento penalistico, trattandosi quindi di un trattamento certamente differenziato rispetto a quello di natura fallimentare, ma che pur sempre deve tener conto delle valutazioni favorevoli che il legislatore, con la riforma del diritto fallimentare, ha ritenuto di dedicare a queste società. Ciononostante, questi trattamenti di favore non sono previsti e alcuni addirittura non potevano essere previsti. Non si può ritenere strutturalmente un fatto di lieve entità o un fatto non punibile per la tenuità dell’offesa un fatto che avvenga nel contesto di società che hanno dimensioni e, sostanzialmente, struttura e funzioni delle società che sono ammesse al mercato regolamentare. Con questa ultima e forse ripetitiva considerazione, credo di aver assolto ad un obbligo, sia pur sintetico, di informazione, ritenendomi ovviamente a disposizione dell’Aula per dare tutte le ulteriori e successive informazioni che eventualmente verranno ritenute necessarie.

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