Palermo, torna in carcere la ricercatrice universitaria libica con l’accusa di istigazione al terrorismo

Nata a Bengasi ed ha 45 anni la donna fermata questa mattina a Palermo con l’accusa aver pubblicamente istigato a commettere delitti in materia di terrorismo. Ufficialmente frequentava l’Università di Palermo come dottoranda in Scienze economiche aziendali e statistiche, e si manteneva con una borsa di studio elargita dall’ambasciata libica ma in realtà svolgeva attività di propaganda per l’Isis e la Jihad attraverso i social network. Dalle indagini compiute dalla sezione antiterrorismo della Digos della questura palermitana, è emerso che S. era una vera e propria “cellula dormiente” del gruppo estremista “Ansar Al Sharia Libya”.

Era legata anche a foreign fighters, presenti in Italia e in Europa (Gran Bretagna, Belgio e Turchia) che, come lei, esaltano il radicalismo religioso e le milizie combattenti in Libia. Grazie agli accertamenti telematici ed informatici, i poliziotti hanno accertato che la maggior parte della propaganda veniva fatta attraverso le pagine dei social network raggiungendo numeri di visibilità elevatissimi e creando così una vera e propria rete di sostegno. La maggior parte di queste pagine, scritte in lingua araba, erano indirizzate a pubblicizzare, a livello globale, la propaganda jihadista, definita Jihad 2.0. La lontananza dagli scenari di guerra non ha impedito alla donna di lottare contro chi non condivideva i suoi ideali, portandola così, ad esempio, a minacciare una connazionale residente a Palermo, colpevole di non aver condiviso la sua posizione ideologica radicale.

Tra i vari episodi scoperti dagli agenti anche uno di invio di somme di denaro per scopi imprecisati ad un uomo residente in Turchia il quale manifestava inquietanti timori di essere intercettato nelle conversazioni con l’indagata. Su quest’ultimo episodio sono in corso ulteriori accertamenti. Si era anche attivata per far arrivare in Italia il nipote combattente in Libia per le milizie vicine all’Isis, in modo da sottrarlo alla cattura da parte dell’esercito regolare libico. Nel corso di un’altra conversazione telefonica intercettata dagli investigatori, infatti, la donna, suggeriva ad alcuni familiari, di far scappare il nipote in Tunisia, nel tentativo di ottenere il rilascio del visto d’ingresso per l’Italia presso la sede dell’ambasciata italiana in Tunisia (in quanto l’ambasciata d’Italia in Libia era stata chiusa da pochi giorni).

 Per questo scopo la donna lo aveva iscritto ad una scuola di italiano per stranieri, a Palermo, in modo da ottenere per lui il rilascio del visto d’ingresso per motivi di studio e – una volta giunto in Italia – la concessione del permesso di soggiorno. Suo nipote, invece, sarebbe rimasto ucciso nel corso di una operazione militare condotta dall’esercito “regolare” libico.

comunicato stampa fonte: https://www.poliziadistato.it/articolo/135773db5babd76168252577/

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