…Se la felicità è un racconto fantastico, l’infelicità rimane l’esperienza più incredibile…

Da essere umano che osserva sempre e comunque il mondo che lo circonda, non posso che soffermarmi oggi su quel pensiero che ha fatto del diritto alla felicità un dovere, trasformandola in una sorta di bestia feroce, insaziabile e spietata. Nei giorni nostri se per una sorta di fortuna si è colmi di tutti i beni di questo mondo, alla superficie della felicità salgano solo bollicine come fosse nell’osservarla, in un semplice bicchiere di birra. Il “materiale” inteso nel nostro tempo come sinonimo di contentezza, non ci porta che a quella banale stupidità per cui per l’uomo nulla è più difficile da sopportare più di una lunga serie di giorni felici. E’ giunta l’ora di farla finita con la favola millenaria secondo cui felicità, beatitudine e serenità sono le uniche mete desiderabili della vita. Troppo a lungo questo ci è stato fatto credere, e noi ingenuamente lo abbiamo fatto. Anni addietro ricordo vi fu una trasmissione televisiva nella quale quattro emeriti rappresentanti di diverse discipline e visioni del mondo non riuscirono ad accordarsi su questo concetto solo apparentemente scontato, e ciò devo confessarlo, in quel momento non è riuscito a sorprendermi, tanto da ricordarmi in un pazzo collegamento di idee, che in fondo l’Inferno di Dante è sempre stato considerato di gran lunga più geniale del suo Paradiso. Mi chiedo a questo punto, cosa e dove saremmo senza la nostra infelicità? Essa è, nel vero senso della parola, dolorosamente necessaria. Al nostro mondo, che rischia di essere sommerso da una marea d’istruzioni per essere felici, non si può rifiutare più un salvagente. Il numero di coloro che, con competenza e consapevolezza si costruiscono la propria infelicità può sembrare relativamente grande. Infinitamente più elevato, è però il numero di quelli che, anche in questo campo, hanno bisogno di consiglio e aiuto. A quest’altruistica intenzione non manca però uno spunto politico. Lo stato sociale si è assunto il compito di assistere il cittadino dalla culla alla bara, rendendo la sua vita “sicura e traboccante di felicità”. Questo però è politicamente possibile solo attraverso una sistematica “educazione” dei cittadini all’inettitudine sociale, con la conseguenza che nel mondo occidentale crescono a dismisura le spese pubbliche per i servizi sociali e l’assistenza sanitaria. Non amo i numeri, ma questo volta mi sono sforzato di documentarmi leggendo con stupore che nel nostro paese in media circa 10 milioni sono gli ammalati consumatori di farmaci, 9 milioni sono gli Istituti di cura pubblici che ospitano degenti che consumano medicine il cui utilizzo nell’arco di soli 4 anni è aumentato di ben quattro volte. Solo questo mi fa riflettere su cosa succederebbe se questa tendenza alla crescita si arrestasse o addirittura diminuisse, si creerebbe il crollo di enormi ministeri e colossali organizzazioni del settore dell’industria andrebbero in fallimento, creando così altri milioni di persone senza lavoro. Questo lo scrivo per far capire quanto lo stato sociale ha invece bisogno dell’indigenza e dell’infelicità della popolazione. Quindi anche e perfino nell’essere o non essere felici, la cattiva politica ne determina la direzione, ed ecco servito il perché poi è di basilare importanza l’infelicità. Ricordatelo per inciso, di là da qualsiasi discorso, che la nostra ricerca umanissima della felicità, trasformata per come descrivo, in una specie d’imperativo, di ossessione, è oggi uno dei tanti mali di questa società dalla quale dobbiamo difenderci non sposando quell’imperativo del “dovere della felicità“. Liberiamoci al più presto da quell’idea che la felicità sia un obbligo sociale, o peggio ancora, il senso e lo scopo della nostra vita. Perché la felicità non è un dovere né un diritto, ma uno stato di grazia che arriva quando nessuno se lo aspetta e se ne va appena riusciamo a realizzare che siamo felici.

Gattuso Maurizio Domenico

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