Anni ‘ 70: tra contestazioni, riforme, terrorismo

Gli anni ’70, “gli Anni affollati”…  Un periodo che in Italia viene inserito nella categoria degli “anni di piombo”:  un sogno mancato, un incubo, un delirio di utopie sanguinose? Certamente il terrorismo politico degli anni ’70  ha in Italia un peso  abnorme, con ripercussioni forse superiori a quelle avutesi in  qualsiasi altro paese di analoga collocazione internazionale . Ma gli anni ’70 rappresentano per l’Italia anche una grande stagione di crescita sociale, culturale e politica: negli anni Sessanta la “questione giovanile”  caratterizza un intero stile di vita. Una delle peculiarità del ’68 italiano è infatti la sua durata, la generalizzazione dei suoi principi ispiratori all’intero corpo sociale, la sua capacità di interagire (almeno in parte) con il movimento operaio e la sinistra storica. Al ’68 studentesco segue l’autunno caldo, che mette in movimento i giovani operai, di estrazione contadina, capaci di rinnovare le forme e gli obiettivi rivendicativi, in un contesto di  trasformazione generale di gerarchie e logiche di potere che coinvolge  sfere  diverse, passando dalle professioni all’editoria, dalla magistratura alla medicina. Una carica liberatoria eccezionale, proviene dal movimento femminista, che a partire dalla lotta per l’emancipazione familiare e sociale della donna, investe tutte le relazioni e le pratiche politiche. Nel femminismo si vede operare al massimo grado quella “politicizzazione del quotidiano” che nonostante le numerose sconfitte e derive, è, la lezione più significativa di quegli anni.

Le riforme
Nonostante le enormi difficoltà, specie nella seconda metà del decennio, gli anni Settanta in Italia sono anche una stagione di importanti conquiste e riforme, tanto nel campo dei diritti civili che di quelli sociali. Si comincia nel 1970 con l’attuazione delle Regioni, lo Statuto dei lavoratori e la legge che istituisce il divorzio. Nel 1973-74 i “decreti delegati” istituiscono gli organi collegiali tuttora in vigore nella scuola ; la riforma del 1978 istituisce il  servizio sanitario nazionale universalizzando l’assistenza medica pubblica. Nello stesso anno vedono la luce la legge 180 che abolisce i manicomi e rivoluziona il trattamento del disagio psichico e la legge 194, che permette anche in Italia l’interruzione volontaria di gravidanza .Ma lo scenario muta rapidamente a partire dal 1975-76 : sotto i colpi della crisi e del terrorismo, la carica dei movimenti si esaurisce repentinamente  e la stessa figura del “militante”, così pregnante per una parte consistente di una generazione, si perde nelle tortuose vie della rinuncia e del silenzio.

La crisi economica italiana
Lo shock petrolifero colpisce particolarmente un paese dipendente dalle importazioni come l’Italia, gravando sulla bilancia dei pagamenti, ed alimentando un meccanismo inflattivo già surriscaldato  dalla spirale salari-prezzi – l’aumento dei salari non è proporzionale all’ incremento dei prezzi -. L’alternanza di politiche deflattive e svalutazioni ridà fiato solo momentaneamente al ciclo, mentre riemergono le sofferenze strutturali dell’economia italiana: gli squilibri territoriali, quelli intersettoriali, l’inefficienza della macchina amministrativa, gli sprechi e la corruzione nel settore pubblico.

Il quadro politico
Il centrosinistra, faticosamente formato a metà degli anni ’60, era stato solo parzialmente in grado di promuovere le riforme modernizzatrici rese possibili dalla congiuntura favorevole del boom economico. Pur fra molte oscillazioni, nella DC  si afferma lentamente l’ipotesi di Aldo Moro, di coinvolgere gradualmente il PCI nell’area di governo per puntellare la tradizionale centralità democratico-cristiana. Dall’altra parte il PCI, che ha un trend elettorale crescente fino al 1976, sceglie con Berlinguer la strategia del compromesso storico, nome con cui si indica in Italia la tendenza al riavvicinamento, tra Democrazia Cristiana e Partito Comunista Italiano, altresì  citata con i termini “terza fase e alternativa democratica”, capace di realizzare un programma di profondo risanamento e rinnovamento della società e dello Stato italiano, sulla base di un consenso di massa tanto ampio da poter resistere ai contraccolpi delle forze più conservatrici. La proposta dal neo-segretario del Partito Comunista Italiano Enrico Berlinguer alla Democrazia Cristiana per una proficua collaborazione di governo (aperta anche alle altre forze democratiche) interrompe così la cosiddetta conventio ad excludendum del secondo partito italiano dal governo. Berlinguer peraltro  è sempre più deciso a sottolineare l’indipendenza dei comunisti italiani dall’Unione Sovietica e a rendere quindi a pieno titolo il suo partito una forza della società occidentale. Il punto di raccordo sono i governi (guidati da Andreotti) tra il 1976 e il 1979, che vedono prima l’astensione (1976-77) e poi l’ appoggio esterno  e la fiducia (1978-79)  ai governi di solidarietà nazionale da parte dei parlamentari comunisti , che pure non entrano mai nella compagine governativa. Segnati pesantemente dalla fase culminante della sfida terrorista (il rapimento Moro avviene proprio il giorno del voto di fiducia al governo di “solidarietà nazionale”), osteggiati da destra, da sinistra, e da molti paesi esteri influenti, i governi di unità nazionale ritarderanno ma non potranno impedire la prevedibile crisi istituzionale, e sarà il Pci a pagare lo scotto maggiore in termini elettorali, riuscendo di nuovo dall’area di governo.

Piombo e bombe
Il decennio è certamente segnato da un uso massiccio della violenza come arma politica.  Terrorismo nero e terrorismo rosso hanno origini, modalità organizzative e stili di azione molto diversi, e diverse sono le traettorie temporali. Tra il 1969 e il 1974 sono le stragi indiscriminate di matrice fascista e ad essere dominanti. In questo caso marcate e provate sono le complicità in settori delle istituzioni politiche e militari, sorte al fine di dimostrare l’incapacità della democrazia a governare l’ordine pubblico, e l’esigenza di preparare la strada a un regime”autoritario”  (con varie ipotesi sul grado di autoritarismo auspicabile). La strategia della tensione comincia a cambiare a partire dal 1974, quando è evidente che la spinta di cambiamento a sinistra sta perdendo intensità,  con i gruppi   di derivazione marxista-leninista che  vedono sfumare la possibilità di sovvertire l’ordinamento statale attraverso la lotta armata, mentre le condizioni internazionali mutano clamorosamente (cadono i colonnelli in Grecia, ritornano alla democrazia Portogallo e Spagna). E’ in questo periodo che il terrorismo rosso, tra cui spiccano le Br (nate nel 1970), comincia ad alzare il tiro e ad estendere la propria organizzazione. Il crescendo di rapimenti, gambizzazioni, omicidi di poliziotti e magistrati culmina nella “campagna di primavera” del 1978, quando le Br riescono a sequestrare (tenere prigioniero per 55 giorni) e uccidere uno degli uomini politici più importanti del principale partito di governo, il prof. Aldo Moro. Il terrorismo rosso recluta diverse centinaia di militanti e qualche migliaio di simpatizzanti e irregolari, ma di fatto non riesce mai a coinvolgere fasce significativamente ampie né della classe operaia né dei movimenti sociali. Dopo Moro la forza dei terroristi diminuisce rapidamente, e la legge sui pentiti ha effetti devastanti. Il bilancio di fine decennio è molto pesante sia in termini di vittime che di movimenti di coscienze.  Fra il 1969 e il 1988 sono 197 le vittime di agguati terroristici e 38 i caduti negli scontri catalogati come episodi di «violenza politica», intervallati dalle bombe che hanno dilaniato 135 persone. In tutto 370 morti, ai quali l’Associazione italiana vittime del terrorismo aggiunge circa mille feriti. È la macabra contabilità di un ventennio che ben presto è diventato (oltre che di piombo e di tritolo) anche «di ferro», per via delle sbarre e delle celle blindate dove sono stati rinchiusi migliaia di detenuti accusati di quei delitti, e poi di associazione sovversiva, bande armate rosse e nere, detenzioni di armi e favoreggiamenti vari.

Dove sono oggi i terroristi? C’è chi ha calcolato che in totale sono circa seimila le persone transitate dalle patrie galere nella lunga stagione del terrorismo nostrano. Un esercito di almeno quattromila inquisiti  tra i gruppi di estrema sinistra – le Brigate Rosse fondate nel 1970; Prima linea nata nel ’76, e decine di sigle accumulatesi negli anni – a cui vanno sommati quelli della galassia autonoma e senza nome, anarchici e cani sciolti. Oltre agli arrestati per appartenenza alle organizzazioni neofasciste, gli stragisti e quelli dello «spontaneismo armato»: prima Ordine Nuovo, Ordine Nero e Avanguardia Nazionale, poi i Nuclei armati rivoluzionari gruppi affini.

Chi resta in carcere Oggi in prigione con l’accusa (a vario titolo) di eversione nazionale ne sono rimasti 54, 43 uomini e 11 donne. Meno dell’uno per cento. Segno inequivocabile di una stagione non solo finita, ma che ha sostanzialmente chiuso i conti con la giustizia. Tra gli uomini ancora dietro le sbarre, restano 24 detenuti, compresi tre che hanno dato vita alle «nuove Brigate Rosse» che tra il 1999 e il 2003 uccisero Massimo D’Antona, Marco Biagi e il poliziotto Emanuele Petri: un’altra storia. Tra le donne ci sono uno dei capi delle «nuove Br» chiusa al «41 bis», quattro militanti anarchiche e una brigatista della vecchia guardia, arrestata nel 2004 quando già aveva abbandonato da tempo l’organizzazione. I maschi «reduci degli anni di piombo» sono ventuno, di cui alcuni ammessi al lavoro esterno o alla semilibertà; fra loro, il capo brigatista che guidò l’operazione Moro, concluso con l’omicidio dell’ostaggio esattamente quarant’anni fa, il 9 Maggio 1978.

Gli irriducibili Rinchiusa a tempo pieno, e in regime di «alta sicurezza», c’è una pattuglia di 16 irriducibili della vecchia guardia,  arrestati fra il 1982 e il 1989, che dopo oltre trent’anni di galera effettiva non hanno mai messo il naso fuori nemmeno per un giorno. Se volessero potrebbero farlo, ma non ne fanno richiesta per non interloquire con lo Stato che hanno combattuto e di cui si considerano tuttora «prigionieri politici».

Le vittime e gli arresti Prima di rimanere gli epigoni volontari di una guerra allo Stato dichiarata unilateralmente e persa da molto tempo, hanno fatto parte di una realtà molto più massiccia (sebbene non di massa, come avrebbero voluto). Nel 1994 il «padre fondatore» delle Br nonché sociologo, libero dopo vent’anni di prigione, realizzò con il «Progetto memoria» una radiografia utile ancora oggi per interpretare il fenomeno del terrorismo rosso. Stando alle cifre di quella ricerca, l’organizzazione che ha avuto il maggior numero di inquisiti furono le Brigate Rosse nelle diverse articolazioni in cui si sono divise dai primi anni Ottanta: 1.337 inquisiti, distribuiti fra cinque sigle. Questi gruppi hanno firmato, tra il 1971 e il 1998, 128 omicidi (127 uomini e una donna: la vigilatrice del carcere romano di Rebibbia  assassinata il 28 Gennaio 1983).

Nella divisione delle vittime per categoria primeggiano i poliziotti (38), seguiti da 21 carabinieri e 10 appartenenti a corpi di polizia privata, 8 agenti penitenziari e un vigile urbano. Tra i «civili» figurano 8 magistrati, 6 politici, 6 dirigenti d’azienda, due giornalisti (Walter Tobagi del Corriere e Carlo Casalegno della Stampa). L’anno con più omicidi è stato il 1978 (28), seguito dal 1980 (24), il 1979 (21) fino ai 13 per anno, consumati nel 1981 e 1982. La maggior parte dei condannati all’ergastolo erano studenti e giovani operai. La legge italiana, dopo 26 anni di buona condotta, consente di tornare in libertà. Per questo molti di loro, da adulti, in società sono tornati.

Miriam Sgrò

Fonti:  relativamente a “dove sono oggi i terroristi? L’inchiesta di Milena Gabanelli” … corriere.it

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