Mons. Vincenzo Bertolone. “L’amore di cui c’è bisogno”

C’è un bimbo, a Torino. Ha quattro mesi e dalla nascita  vive in una stanza dell’ospedale Sant’Anna. Giovanni è il suo nome ed i genitori sono cinquanta, tanti quanti sono gli uomini e le donne in servizio nella struttura. Giovannino, come lo chiama la sua  vasta famiglia, non ha una madre ed un padre soltanto perché i genitori, che pure tanto lo avevano desiderato al punto da concepirlo attraverso la pratica della fecondazione eterologa, lo hanno lasciato in ospedale dopo la  nascita, quando al neonato in fasce era stata diagnosticata l’ittiosi Arlecchino.
È una malattia, rara, che colpisce un neonato su un milione e che è causa della comparsa sulla pelle di grosse squame quadrangolari che ricordano la maschera veneziana e si associa a forte disidratazione con conseguenti problemi di respirazione e serie difficoltà motorie. Una malattia con serie complicazioni e bassissime possibilità di sopravvivenza, alla quale Giovannino sembra per il momento sopravvivere, avendo superato la fase acuta postnatale. Che ne sarà del suo futuro è difficile dire. Di certo, nel presente c’è l’affetto di medici ed infermieri, oltre alla disponibilità dei religiosi della Piccola Casa della Divina Provvidenza, che se ne prendono cura ed un numero crescente di famiglie pronte ad adottarlo. Ma c’è pure, sullo sfondo, il dramma di una madre e di un padre che hanno deciso non di abbandonarlo fuggendo nelle tenebre, ma di affidarlo coscientemente ad altri.
Sarebbe sbagliato giudicare una scelta che, al di là delle opinioni personali, ben difficilmente sarà stata presa a cuor leggero e senza sofferenze per il peso che ne viene. Sul piano educativo è forse più utile riflettere a quale compito siano attesi i genitori, quale senso di responsabilità sia da loro sollecitato, quanti sacrifici e quale amore richiedano la presenza in casa di uno o più figli. C’è un esempio che meglio di mille parole aiuta a comprendere tutto ciò, ed è quello di Giovanna Proietti: il suo Valerio, a fine ottobre, s’è macchiato dell’omicidio di un coetaneo, per le strade di Roma. A denunciarlo e farlo arrestare è stata lei, che lo aveva messo al mondo. «Meglio in galera che tra gli spacciatori», è stata la sua spiegazione tra le lacrime davanti ai poliziotti. Una lezione senza eguali, in un mondo di maestri senza allievi, che ha dimostrato che cosa sia davvero importante tra le mura di casa: non i soldi, non il potere, neppure i ruoli, ma l’amore, solo l’amore. Quello che ha prevalso sull’istinto materno di protezione di un figlio assassino, ma pur sempre figlio, lasciando spazio all’amore vero, che intravede la salvezza persino dietro le sbarre della cella alla quale quel ragazzo è stato consegnato. Le porte del carcere si apriranno magari tra anni, tra decine di anni, ma Valerio non sarà mai da solo: avrà al suo fianco sempre mamma Giovanna, che lo attenderà, schiena curva e capelli bianchi, anche nel giorno in cui le porte della galera si spalancheranno al termine della pena. Come Giovannino, che una madre l’aveva e l’ha perduta per poi ritrovarla non all’anagrafe, ma sui sentieri dell’amore. Perché, come scriveva Lev Tolstoj, «quando ami qualcuno lo ami così com’è, non come vorresti che fosse».
+ Vincenzo Bertolone

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