
«Non possiamo comprendere la vita, se in qualche modo non spieghiamo la morte. Il criterio direttivo delle nostre azioni, il filo per uscire da questo labirinto, il lume insomma deve venirci di là, dalla morte»

Ora, oltre i problemi – anche giuridici – che una tale soluzione pone, ad esempio sotto il profilo della tutela della privacy, è evidente il suo contrasto con i principi della logica e della sensibilità, per il suo inseguire a tutti i costi una finzione che avrà l’effetto di allontanare ancor più gli uomini e le donne dal rapporto con la morte. Eppure, in questi mesi segnati dall’avanzata del Coronavirus, tante cose la pandemia ha mostrato tanto ai credenti quanto a chi non crede. Ha svelato la grandezza della scienza ma anche i suoi limiti; ha riscritto la scala dei valori, che non ha al vertice il denaro o il potere; ha riproposto fatiche e gioie delle relazioni non solo virtuali; ha semplificato il superfluo e rivalutato l’essenzialità; ha costretti moltissimi a fissare negli occhi delle persone care la propria morte, fino a dare il diritto di protestare con Dio, di porre domande e lamenti a lui. Ma soprattutto, ha rivelato un valore supremo: l’amore, quell’amore che le macchine, per quanto intelligenti, non sentono e non sono in grado di dare.
Qualche anno fa la stessa azienda impegnata oggi a costruire relazioni artificiali tra vivi e defunti, in una sorta di sperimentazione, aveva lanciato un chatbot che simulava una teenager, allo scopo di avviare e intrattenere conversazioni con i millennial. L’esperimento durò poche ore, giusto il tempo necessario alla fanciulla virtuale per imparare il razzismo, cominciare ad inneggiare a Hitler ed a muovere delle avance ai suoi interlocutori: fu spenta nel giro di mezza giornata, in nome della realtà, in nome della vita e della morte.
+Vincenzo Bertolone