I have a dream

La gita di ferragosto a Gambarie mi aveva trasmesso tanta allegria e tanta voglia di vivere, ma la visione di quel reticolato che divideva, a Tre Aie, la zona calpestabile, dalla zona a pericolo di mine inesplose, mi aveva fatto a lungo riflettere, nei giorni seguenti, sulla Guerra. Una guerra mondiale si era spenta circa 18 anni prima, mio padre ne portava indelebilmente i segni addosso. Ma l’uomo, evidentemente, non aveva imparato nulla. Si sentiva infatti parlare, spesso, al telegiornale e si leggeva, sulla stampa, della guerra fredda della guerriglia nel Vietnam. Kennedy,  l’anno prima, aveva deciso di intensificare la presenza delle forze Usa nel Vietnam, per cui si temeva la deflagrazione di un vero e proprio conflitto, che avrebbe finito presto o tardi per coinvolgere il mondo occidentale contro il blocco orientale, in una terza e definitiva guerra mondiale. Possibile che l’umanità non avesse imparato, possibile che nessuno si preoccupasse a diffondere messaggi di pace, piuttosto che di guerra.

Mio padre, quando nelle sere di inverno, attorno alla conca, raccontava (sempre a malincuore e solo perché lo spronavamo ripetutamente) della campagna di Africa e della prigionia alle Hawaii, molte volte citava i soldati americani di colore, come i più valorosi, ma anche i più rispettosi dei loro diritti e della loro condizione di prigionieri. Raccontava che a catturarlo fu un soldato negro, mentre si trovava da solo, disperso dalla propria compagnia, in mezzo al deserto, una jeep americana lo incrociò, egli eroicamente ordinò all’equipaggio della camionetta di arrendersi … avrebbero potuto ucciderlo con estrema semplicità, invece, raccontava, un soldato negro scese dal mezzo gli levò il moschetto dalle mani e con una forza immane lo sollevò e lo adagiò sul cassone della jeep. Papà diceva sempre che i soldati neri americani erano coraggiosi ed avevano un alto senso della loro patria, ma avevano anche un grande rispetto della vita umana.

Il 29 agosto televisione e giornali non facevano altro che parlare del sogno di Martin Luther King, discorso tenuto ad una folla immensa di afroamericani accorsi, in una spianata di Washington, per protestare contro il razzismo, ancora diffuso in quella nazione. Fui sorpreso, come poteva una Nazione che aveva combattuto per la libertà e per la democrazia essere, ancora, razzista? Non capivo. Ma sentivo forte il bisogno di credere in qualcosa e qualcuno che fosse veramente democratico e pacifista.

Nei giorni seguenti lessi avidamente ogni cronaca che raccontava del sogno e della vita di Martin, avevo trovato qualcuno in cui credere.

Cerchiamo di non soddisfare la nostra sete di libertà bevendo alla coppa dell’odio e del risentimento. Dovremo per sempre condurre la nostra lotta al piano alto della dignità e della disciplina. Non dovremo permettere che la nostra protesta creativa degeneri in violenza fisica. Dovremo continuamente elevarci alle maestose vette di chi risponde alla forza fisica con la forza dell’anima.

Quelle parole mi aprirono le idee sul vero significato di libertà e democrazia, ne ero sicuro, le avrei ricordate per tutta la vita!

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